Jerome Bruner: un modello narrativo della costruzione del Sé

Jerome Bruner

Jerome Seymour Bruner (New York, 1 ottobre 1915) è uno psicologo statunitense che ha contribuito allo sviluppo della psicologia cognitiva e la psicologia culturale nel campo della psicologia dell’educazione.

Un modello narrativo della costruzione del Sé

Jerome Bruner

La nozione di “Sé” è un rompicapo sia per i filosofi che per gli psicologi. Per quanto sembri familiare, si tratta di una familiarità che svanisce quando la si esamina più da vicino. Il mio Sé include i consanguinei, la mia automobile, l’università in cui mi sono laureato? Include il mio piacere nel prendere parte al simposio della New York Academy of Sciences? Questa indefinibilità dei limiti non si fa meno problematica se si ammette che il sé sia solo un insieme idiosincratico di ciò che si è registrato in ogni persona come risultato delle sue varie esperienze, ossia una funzione delle cosiddette differenze individuali. Se fosse così, allora i differenti sé sarebbero così radicalmente diversi l’uno dall’altro che sarebbe impossibile affrontare il problema delle “altre menti”. Così anche ammettendo che i sé sono in qualche modo costruiti, come facciamo a capire che cosa rende i nostri sé sufficientemente simili per renderli comunicabili intersoggettivamente, ma anche sufficientemente unici per essere distintamente individuali?

A proposito del primo di questi aspetti, la comunicazione intersoggettiva, la costruzione di sé sembra essere spesso un prodotto secondario di altre attività orientate, come trovare il proprio posto nell’ordine sociale, giustificare ad altri le nostre intenzioni, razionalizzare la nostra delusione. Dunque per sapere qualcosa sul Sé, il vostro o quello di altri, dovete conoscere molto di più che solo i vostri o altrui sentimenti interni. Il Sé, per così dire, non è solo dentro di voi, ma “nel mondo”, in una qualche specie di mondo reale e in questo senso è sia privato che pubblico.

Già la sola esistenza di un concetto del sé deve sicuramente dipendere da un qualche riadattamento filogenetico che rende possibile al Sé svilupparsi nel corso dell’ontogenesi, perché gli esseri umani sembrano essere capaci in modo speciale di distinguere il “Sé” dal “mondo” in modo così esteso. Tutti gli organismi hanno un sé? L’hanno i neonati, gli autistici gravi, le persone con un grave danno cerebrale? Che cos’è che si sviluppa nel Sé?

Sembra che stia emergendo un consenso su questi argomenti. Penso che la maggior parte concorderebbe sull’idea che il Sé è in realtà costruito attraverso le interazioni con il mondo e non piuttosto qualcosa di immutabile, ossia che è un prodotto delle transazioni e dei discorsi1. La maggior parte sarebbe anche d’accordo che la costruzione del Sé non avrebbe luogo se non ci fosse qualcosa di speciale nel genoma umano. Di fronte a uno dei problemi preferiti dai filosofi: “come faccio a riconoscere che sono lo “stesso” sé che è andato a letto la sera prima o che è andato dall’analista anni prima?” — noi invochiamo di solito sia fattori esperienziali che genetici, diciamo che il nostro sistema del sé è intrinseco e si conserva da sé, ma che noi lo elaboriamo e lo ricostruiamo allo scopo di mantenere e stabilizzare le nostre relazioni con il mondo, particolarmente il mondo sociale. Il Sé è così forte che le azioni automatiche in stato di incoscienza e i casi di personalità multipla fanno notizia in quanto eccezioni.

Eppure, nonostante ciò, il sé pur sembrando continuo ci colpisce come curiosamente instabile quando lo consideriamo nell’arco di un lungo lasso di tempo. Le autobiografie, per esempio, sono di solito punteggiate dal resoconto dei punti di svolta che costituiscono probabilmente profondi cambiamenti nell’identità, in questa forma, ad esempio: “dopo questo fatto, ero diventato un’altra persona”. Un terzo delle frasi che fanno riferimento al sé nel corpus delle autobiografie spontanee su cui ho lavorato contengono indicatori di dubbio e di incertezza sull’identità; espressioni che contengono congiuntivi, forme per esprimere l’incertezza, questioni nette di tipo amletico e così via. Dunque può darsi che un sé esteso sul lungo periodo ponga problemi per il mantenimento della continuità del sé.

Alcuni studiosi si spingono fino ad affermare che la coesione del sé nell’arco di lunghi periodi pone problemi particolari in condizione di rapidi mutamenti culturali2. Naturalmente i sé sono stati sempre considerati come tipici e rappresentativi del loro tempo, cosa su cui molti studiosi hanno insistito3, ma può benissimo darsi che ci sia un limite alla capacità del sé di assorbire mutamenti senza subire una crisi patologica. Se le cose stanno così è del tutto appropriato che la New York Academy of Sciences dedichi una serie di conferenze proprio al tema del Sé. Queste conferenze sono probabilmente anche un segnale che la concezione del Sé sta subendo una rivoluzione, presumibilmente in conseguenza dei mutamenti rapidi del mondo in cui viviamo. È dunque opportuno esplorare questo argomento con la massima attenzione.

II Gli scienziati, naturalmente, vogliono demistificare il Sé, perché la demistificazione è il nostro mestiere. La sfida è però quella di demistificarlo senza ridurne la complessità, particolarmente riguardo a quella che sembra un mescolanza difficile da trattare di pubblico e privato. Perché, senza alcun dubbio, il Sé è uno strano miscuglio di “esterno” e “interno”. La nostra conoscenza esterna del Sé ci proviene dalle affermazioni che gli altri fanno in interviste, questionari, nelle autobiografie e anche nei cosiddetti atti di “auto-rivelazione” in risposta, ad esempio, a lode e biasimo. La nostra conoscenza degli altri sé dev’essere sicuramente basata in qualche misura sulla conoscenza di sé stessi, in quanto per fare inferenze su o “percepire” altri sé, noi ci basiamo di solito proprio sulla conoscenza interna del nostro Sé. Ma all’inverso, come molto hanno osservato, noi modelliamo la nostra concezione del nostro Sé anche su ciò che osserviamo negli altri. Ciò ci pone di fronte a un imbarazzante problema di transazioni relazionali di cui ci occuperemo in seguito.

Ancora un altro problema. Anche se tutti saremmo d’accordo nel dire che il nostro Sé si sviluppa attraverso gli incontri e nelle diverse circostanze del mondo in cui viviamo, noi sappiamo anche che quegli eventi e quelle circostanze non ci vengono, per così dire, già belli e pronti. Essi stessi sono costruiti, prodotti di un fare significato che si autogenera. Gli eventi di una vita non possono essere presi come dati; essi stessi sono foggiati per adattarsi a una concezione del nostro Sé in evoluzione, filtrata dalla porta d’ingresso della nostra percezione del mondo4. Così il mondo esperito può produrre il Sé, ma anche il Sé produce il mondo esperito. E parte di questo mondo è costituito dagli altri a cui offriamo giustificazioni, scuse e ragioni che sono cruciali per la formazione di sé, senza dimenticare l’importanza che ha la messa in scena interpersonale della nostra autostima.

La cultura inoltre prescrive i suoi modelli di costruzione del sé, ossia modi in cui possiamo legittimamente concepire noi stessi e gli altri. Quando i giapponesi descrivono se stessi tendono ad enfatizzare le loro affiliazioni, mentre gli americani enfatizzano la loro individualità5. Questi modelli culturali implicano anche i modi in cui possiamo deviare da essi, come ribelli, sognatori, seduttori ecc. Un poeta perspicace, cui una volta feci un’intervista, iniziò la sua autobiografia raccontandomi che l’ostetrica che l’aveva fatto nascere gli aveva dato una pacca sulle spalle per farlo respirare, e gli aveva rotto due costole, ignorando che lui soffriva di osteoporosi prenatale. “È la storia della mia vita, continuò, la gente mi rompe le ossa per farmi del bene, questo è ciò che ti capita quando sei omosessuale”. Il modello “vittima della società” funzionava bene per descriversi fin dal momento della sua nascita!

Eppure c’è un senso in cui questi modelli culturali di sé forniscono anche una fonte esterna di continuità alla nostra concezione del Sé, in quanto essi danno continuità e stabilità alla nostra posizione nel mondo culturale. La mia attenzione è stata attirata dal carattere stabilizzante delle narrazioni autobiografiche, suggerita dalle ricerche di Philippe Lejune su ciò che egli definisce il “patto autobiografico”, un insieme di regole implicite su come raccontare la propria storia, che ovviamente, è anche una prescrizione su come costruire il proprio sé6. Ecco la sua versione del patto: “Definizione: racconto retrospettivo in prosa che una persona reale fa della propria esistenza, quando mette l’accento sulla vita individuale, e in particolare sulla storia della propria identità”. Questa definizione suona quasi l’espressione delle condizioni di accettabilità per un buon atto linguistico autobiografico, o più semplicemente, si tratta di una versione canonica di come pensare il Sé nella nostra cultura. In un altro senso, è una descrizione di quella “valuta del sé” che portiamo nel mercato aperto del discorso per vendere una qualche versione di noi stessi per ricavare le distinzioni che la cultura ha da offrirci, utilizzando la terminologia di Pierre Bourdieu7. Da questo punto di vista, noi offriamo le nostre risorse personali convenzionali per commerciare sul “mercato simbolico” scambiandoci “distinzioni” simboliche. Un simile commercio porta alla formazione di ciò che Bourdieu chiama il nostro habitus, un particolare tipo di prodotto. Ad esempio io non sono soltanto io, ma un professore, un conferenziere alla New York Academy of Sciences e così via.

Questa escursione preliminare sul problema del Sé ci porta ad alcune provvisorie congetture, per non parlare di conclusioni. La prima è che il Sé può non essere così “privato” e inafferrabile come talvolta si suppone. Qualsiasi cosa possa essere, il Sé sembra anche un prodotto culturale, prodotto anche dei discorsi in cui ci impegniamo8. Esso sembra inoltre avere una funzione sia culturale che individuale, in particolare per regolare le transazioni interpersonali (anche quelle istituzionalizzate, come nel diritto, in cui concetti come “responsabilità” standardizzano ulteriormente il nostro senso di identità, oppure come quando minori e criminali sono privati di personalità giuridica). Inoltre il Sé non sembra svilupparsi solo in relazione a un mondo “reale” là fuori, ma piuttosto alla nostra creazione degli eventi in conformità con i codici semiotici e i modelli della nostra cultura . Anche in virtù di tutto quanto abbiamo appena detto, il sé costruito ha una grande stabilità9.

Un’espressione di questa stabilità è che non possiamo fare a meno di percepire noi stessi e gli altri come sé agenti con una certa autodeterminazione; le eccezioni a questa regola la presuppongono, come nel caso in cui vediamo noi stessi o gli altri come “ingannati” o “costretti”10. La nostra visione del mondo sociale è costruita proprio intorno a questa nozione fondamentale di sé che interagiscono. Gli esseri umani sembrano organizzati in modo tale da percepire segnali di autodeterminazione dovunque negli atti propri e degli altri. Quali sono questi segni o segnali di identità che troviamo così irresistibili e come si combinano per darci una visione unitaria di noi stessi e dei nostri congeneri?11 Devono essere ubiqui e ridondanti per far scattare con sicurezza e facilità la nostra percezione. Dunque cosa ci fa pensare di essere in presenza di un sé?12 Ora vorrei dedicarmi a questa questione, ossia ai segnali che ordinariamente interpretiamo come indicativi del Sé.

III Per ragioni che renderò più chiare subito, proporrei la seguente lista di indicatori dell’identità.

    1. Indicatori della capacità di agire (agency): sembrano riferirsi ad atti di libera scelta, ad azioni volontarie ad iniziative intraprese liberamente in vista di uno scopo. Ce ne sono moltissimi, che spaziano dai segnali di mera esitazione all’espressione di intenzioni. Prendono una forma linguistica come in modelli di obbligazione. Noi giudichiamo l’azione per prove ed errori del topo come comportamento agentivo e consideriamo i conflitti faccia a faccia tra uomini in modo analogo. In realtà gli indicatori di un’azione consapevole sono così familiari e vari che non hanno bisogno di essere riassunti qui. È ovvio che i segnali di comportamento intenzionale impedito vanno inclusi nella stessa categoria.

 

    1. Indicatori di impegno: riguardano la coerenza di un agente rispetto a una linea di azione progettata o intrapresa, una coerenza che trascende il momento e l’impulso. Gli indicatori di impegno ci parlano della tenacia, del ritardo della gratificazione, del sacrificio, della volubilità e dell’incostanza.

 

    1. Indicatori di risorse: ci parlano dei poteri, dei privilegi e dei beni che l’agente ha a disposizione per portare a compimento i propri impegni. Essi includono non solo risorse “esterne” come potere, legittimità sociale e sorgenti di informazione, ma anche “interni” come pazienza, perspicacia, capacità di perdonare e persuadere e così via.

 

    1. Indicatori di riferimento sociale: ci rivelano dove e a chi un agente guarda per cercare legittimazione e valutazione dei propri scopi, impegni e distribuzione delle risorse. Possono riferirsi a gruppi “reali” come i compagni di classe o gruppi di riferimenti costruiti cognitivamente, come “l’insieme di coloro che hanno si prendono cura della legge e dell’ordine”13.

 

    1. Indicatori di valutazione: forniscono segnali di come noi o gli altri valutano le prospettive, gli esiti o i progressi di una linea di comportamento progettata o in atto. Possono essere specifici (come segnali soddisfatti o no da una particolare azione) o assai più generali (come quelli che considerano l’insieme di un’impresa come soddisfacente oppure no). Questi indicatori ci parlano di affetti situati, relativi ad aspetti della nostra vita in particolare o in generale.

 

    1. Indicatori di qualità: sono segnali del sentimento della vita, stati d’animo, il ritmo, entusiasmo, noia o altro. Sono segnali di soggettività o di identità. “osservati” in un altro essi spaziano dalla postura all’andatura, ad espressioni verbali altamente stilizzate, intenzionali o no. Osservati in noi stessi, sono indicatori di stati d’animo stanchezza, attivazione generale. Quando sono essi sono relativamente non situati rispetto a eventi esterni, essi sono notoriamente soggetti agli effetti di contesto.

 

    1. Indicatori di riflessività: ci parlano della parte più metacognitiva del Sé, alle attività riflessive impegnate all’autoesame, alla costruzione di sé e all’autovalutazione. Di alcune persone diciamo che sono riflessive o profonde14, che vivono una vita approfondita riflessivamente, oppure al contrario di altre che ci sembrano superficiali. Facendo esperienza del nostro sé, distinguiamo tra questioni che richiedono “strettissima attenzione” nell’immediato oppure in contrasto questioni che riguardano una prospettiva molto più ampia.

 

    1. Indicatori di coerenza: si riferiscono all’apparente integrità dei propri atti, impegni, investimenti di risorse, autovalutazioni ecc. Diciamo di qualcun altro che sembra “tutto d’un pezzo” o di noi stessi che una particolare direzione dei nostri sforzi è “davvero parte di noi stessi”. Questi indicatori rivelano la struttura interna di un concetto di sé più ampio e si pensa che indichino come i nostri sforzi particolari siano coerenti con la “vita come totalità”.

 

    1. Indicatori di posizione: si ritiene che rivelino come un individuo si collochi nello spazio, nel tempo o nell’ordine sociale, la sua posizione nel mondo “reale”. Per lo più gli indicatori di posizione diventano rilevanti quando avvertiamo una discrepanza tra il nostro senso dello status e una particolare prescrizione sociale di ruolo, come nel caso in cui agiamo al di fuori del ruolo, oppure qualcuno è visto come presuntuoso.

 

IV Quest’insieme assai variegato di indicatori del sé suggerisce certamente che c’è un sistema più profondo che opera in noi quando elaboriamo i segnali di identità. Tale sistema può, io credo, essere caratterizzato in modo più astratto più generale e in termini più funzionali. Ora proporrò alcune delle caratteristiche di un simile sistema generale per chiarire meglio come esso generi quella moltitudine di indicatori che ho appena elencato.

1. Modificabilità innata. Sembra che l’esperienza del Sé, del proprio e di quello altrui, sia un “risultato” di un qualche genere di sistema di elaborazione predisposto. Questo sistema accetta all’inizio come input solo un insieme di indicatori strettamente vincolati, come nel caso dell’infanzia o dei primati più evoluti. Esso include dispositivi di azionamento sensoriali come gli occhi15, qualità della voce16 e varie forme di movimento17. Questi input primari possono essere concepiti come segnali modello iniziali di ciò che più tardi si svilupperà in categorie molto più inclusive attraverso una qualche forma di apprendimento o di ricostruzione linguistica. Il primo insieme di indicatori si sviluppa alla fine in qualcos’altro che è assomiglia alla nostra lista di indicatori. Lo spettro e la varietà di segnali vitali che soddisfa particolari tipi di indicatori vengono controllati dalle regole di equivalenza culturale dopo l’apprendimento del linguaggio. Considerato funzionalmente, tale sistema sembra svolgere due funzioni: una funzione di conservazione della specie e una funzione individuale. Vediamo meglio questi punti.

2. Miglioramento della mutualità intraspecifica. Il sistema profondo che stiamo considerando ha tra le sue più importanti funzioni quella di mantenere la vitalità di specie che si adattano culturalmente al loro mondo. Poiché la speciazione, se la si trova, è basata sulla mutualità e sul miglioramento della comunicazione intraspecifica18. Nella specie umana, con il suo adattamento culturale, questa funzione è svolta da un sistema governato dalla regola che “gli altri umani hanno un Sé come me”, che la mia mente opera come quelle degli altri, e che quando il sistema si sviluppa, noi arriviamo a condividere credenze, aspettative, e altri stati intenzionali. A un livello più evoluto, il segno distintivo di tale “speciazione” culturale adattiva sembra richiedere non solo mutualità, ma anche l’istituzione di una concezione condivisa della legittimità: quali credenze ci si possono aspettare negli altri e che cosa gli altri possono aspettarsi da noi, quale direzione di sviluppo si può legittimamente seguire, come si devono applicare i valori e così via. La legittimazione, in certe circostanze, entra nel nostro modo di concepire l’identità nostra e degli altri: essa crea una comunità culturale in cui ci possono essere anche “pensieri proibiti”.

3. Individuazione del sé. Nell’adattamento umano culturale, l’individuazione di sé è complementare alla speciazione culturale: noi siamo sé individuali in una comunità di sé. L’individuazione ha due lati, uno epistemico, l’altro deontico. Il lato epistemico è che ciascuno di noi conosce e crede individualmente: è il nostro background di conoscenze e credenze. Il lato deontico concerne invece ciò cui diamo valore, ciò che ci aspettiamo, temiamo, amiamo ecc. Il lato epistemico riguarda la comprensione del presente, la predizione del futuro e l’interpretazione del passato. Noi ci aspettiamo che i nostri Sé siano individuali in entrambi i senti. Conoscere il proprio sé è essere coerenti in modo da rendere minima la confusione dell’immediatezza e l’impulsività della risposta. Essere un buon giudice del prossimo riduce la sorpresa per gli altrui comportamenti. La deontica dell’individuazione, cioè ciò che si valuta e ci si aspetta legittimamente, è un argomento poco compreso. Gli sforzi per comprendere ciò che gli altri valutano e credono come legittimo hanno spesso generato dottrine eccessivamente intellettualistiche come la teoria della scelta razionale, l’utilitarismo, teorie del rinforzo, tra le altre. L’individuazione epistemica e deontica (sperimentata in sé e negli altri) è spesso ritualizzata o istituzionalizzata nelle usanze e nei miti esemplari. L’individuazione è persino preservata nel sistema sociale, come nel diritto costituzionale alla privacy, nei contratti e nei diritti di proprietà.

La nostra lista di indicatori del sé è un catalogo di categorie generali di segnali della presenza di identità culturali e individuate. Anche gli invertebrati possono discriminare tra la situazione in cui scuotono un ramo o sono scossi dal ramo19. In verità questa primitiva capacità agentiva può costituire ciò che Neisser chiama il “sé sensorio”20. Gli altri indicatori si differenziano come aspetti di ciò che egli chiama invece il “sé concettuale”.

V È interessante che il catalogo degli indicatori prima menzionati comprenda i “costituenti” elementari di un racconto ben formato. Essi comprendono, per ricorrere alla terminologia del grande narratologo Vladimir Propp21, le “funzioni” della fiaba; il che non significa che ogni fiaba li comprenda tutti. Esse sono spesso ridondanti ed è della natura del racconto rendere possibili inferenze per supplire a costituenti mancanti. Beowulf, ad esempio, ha poco da dirci sulle caratteristiche peculiari della situazione che esso ritrae. Né le favole di Esopo ci dicono molto sulla posizione sociale dei protagonisti. La narrativa di finzione, in realtà, può essere resa più “realistica” lasciando all’immaginazione del lettore alcuni indicatori di identità meno specificati .

Ricordiamo che un racconto, definito canonicamente da Burke22 per la finzione, da Hayden White23 per la storia e da Paul Ricoeur24 in generale, rappresenta l’interazione dei seguenti costituenti: un Agente con un qualche grado di libertà; un’Azione intrapresa dal primo con uno Scopo nel cui raggiungimento egli si impegna; Risorse per portare a compimento l’impresa in un Ambiente che li comprende tutti con una presupposizione di Legittimità, la cui violazione ha messo le cose in Pericolo.

Potrebbe darsi allora che ciò che noi riconosciamo come Sé (in noi e negli altri) sia convertibile in una qualche versione di un racconto? Qualsiasi spiegazione o resoconto manchi di indicatori di agenti, di indizi di impegno, di informazioni sulle risorse impiegate, di ogni riferimento o valutazione sociale, senza indicatori di qualità, né segni di coerenza o di riflessione metacognitiva, o infine, di indicazioni sulla posizione sociale del protagonista, un tale resoconto non viene ritenuto senza una “storia”, ma come privo di un vero protagonista; in altre parole tale resoconti sono privi di Sé e senza un vero racconto.

Si potrebbe anche pensare che i generi specializzati di identità a cui sopra ci siamo riferiti rappresentino modi di evidenziare differenti insiemi di indicatori del sé. L’enfasi sugli indicatori di agentività segnalano un sé avventurosi; quelli di impegno invece un sé scrupoloso; l’insistenza sulle risorse segnala un sé prodigo o avaro; troppi riferimenti sociali ci parlano di qualcuno inserito oppure di uno snob; la preoccupazione per la qualità può segnalare un esteta indipendente. In realtà quella che ad alcuni teorici25 piace chiamare la “prima autobiografia”, le Confessiones di Agostino, è famosa per l’equilibrio tra tutti questi indicatori.

Che cosa si può dire riguardo alla modificabilità degli indicatori sopra elencati? Che spiegazione dare per il carattere proteiforme della nostra concezione del Sé, il Sé esteso del celebre capitolo di William James26, o il “sé saturato” di Kenneth Gerge27, o il “sé assorbito” di Ciaran Benson28? Come si estende, si satura, si assorbe o quant’altro il Sé?

VI Vorrei cominciare le mie considerazioni da un frammento autobiografico. Già in un mio recente articolo mi descrivevo come un “lupo di mare” da giovane, perché fin dall’età di undici, dodici anni cominciai a farmi vedere con alcuni amici al piccolo embarcadero della mia città natale. Lavoravamo a giornata per un tale, Frank Henning, che per un contratto tacito in cambio ci lasciava tenere là una piccola barca piatta da pesca. Passavamo un sacco di tempo sull’acqua. Il “sé marinaro” che cominciava a formarsi allora, continua ad esserci ancor oggi. Esso include alcune risorse come l’abilità non solo di fare nodi elementari, ma anche al buio, a testa in giù e quasi automaticamente. Nel corso del tempo divenni esperto nella navigazione celeste, un’abilità resa oggi obsoleta dai satelliti. Sia la mia abilità quasi automatica di fare nodi, di navigare con il sestante contribuiscono entrambi al mio sé marinaro Io sono, per ragioni che mi sfuggono del tutto, molto orgoglioso di queste abilità, ma quel sé non si limita ad un aspetto soggettivo rinchiuso nella mia memoria. Pago quote annuali piuttosto salate per l’iscrizione a due club nautici autogratificanti ai quali fui solennemente ammesso per le mie prestazioni nautiche. Non frequento gli incontri di nessuno dei due; le loro attività mi imbarazzano un po’. Perché non mi dimetto? Bene, non ne sono sicuro.

Come Io (il mio Sé) sono passato dal “là” del porticciolo di Frank Henning al “qui” del mio presente, piuttosto imbarazzato sé marinaro? Ci sono alcuni strani arcaismi di cui devo dar conto in questo passaggio. Che devo fare, ad esempio, dell’ironica soddisfazione di essere capace di navigare con le stelle nell’epoca dei satelliti? L’ronia è essenziale nel mantenere la continuità? So anche come calafatare una barca di legno quando ormai le barche sono per lo più costruite con fibre sintetiche. Perché tutto questo mi dà una soddisfazione ironica? È sicuro che non sono un nostalgico delle anticaglie e non più piacciono le abilità old fashioned. In realtà sono un appassionato di e-mail, dei romanzieri post-moderni, del buon rap e tutto questo mi sembra in strana compagnia con le mie anacronistiche e ormai inutili abilità marinare. Come faccio a tenere tutto insieme? Oppure queste cose vivono in compartimenti separati, in Sé separati?

E comunque, quanti Sé ci sono? In un libro quasi dimenticato, Sigmund Freud una volta suggerì che una persona può essere concepita come “un cast di personaggi”, come in un romanzo o in un dramma. Egli pensava che ciò che uno scrittore e un drammaturgo fanno sia di scomporsi in un insieme di personaggi e poi costruire una storia in cui qualche circostanza li porta ad interagire29. Penso che la spiegazione di Freud sia più appropriata per il modo in cui costruiamo i nostri Sé (o il Sé degli altri), piuttosto che al modo in cui lavorano un drammaturgo o un romanziere. Comunque questa spiegazione fornisce un modello suggestivo e può anche dirci qualcosa sulle difficoltà che le persone incontrano nella costruzione di un sé “a lungo termine” di cui parlavamo prima.

Poiché il solo modo in cui mi sembra di poter fondere il Sé del ragazzino al porticciolo di Franck Henning e l’”io” che sta scrivendo questa pagina è quello di raccontare una storia. E nel momento in cui comincio a farlo divento facile preda della biblioteca di storie che la mia cultura può offrirmi. Posso raccontare la storia “dell’adulto che, con riluttanza, mette da parte i balocchi dell’infanzia”. Oppure posso usare il modello “conversione e spostamento” dello psicologo dinamico, secondo cui il mio sé attuale è una versione mascherata del mio sé dei dodici anni. In realtà un pomeriggio nel settore letterario di una biblioteca universitaria potrebbe facilmente fornirmi una grande quantità di altri modelli di storie utilizzabili. Alcune potrebbero essere più “giuste” di altre, nel senso di adattarsi meglio, o di sembrare più “autentiche”. Ma nessuna di quelle sarebbe “vera” in nessun senso della parola trattabile in modo procedurale, almeno non di più di quanto un racconto possa essere vero o falso.

VII Ora guardiamo un po’ più da vicino la natura e la struttura della narrativa. Vladimir Propp30 afferma che i protagonisti e gli eventi della fiaba sono “funzioni” di una struttura globale del racconto. Molti hanno supposto, tra gli altri Northrop Frye31 che ci sia un numero molto limitati di tali strutture narrative che costituiscono i “generi” della letteratura” La ricca varietà di racconti che troviamo tra i tesori di ogni cultura si può ricondurre a questo numero limitato di tipi. All’interno di ogni genere ci sono molti modi di attuare le funzioni richieste. L’”eroe” del racconto fantastico di Propp, per esempio, deve essere una figura con un titolo o una qualificazione sociale e affinché il racconto cominci in modo appropriato, egli deve aver ottenuto l’insieme delle sue risorse attuali da una più alta autorità. Può essere un principe, un giovane genio, un coraggioso credente,, qualunque cosa, purché il suo ruolo e le sue risorse siano culturalmente riconosciuti. Nel racconto di genere fantastico l’eroe deve poi dedicarsi a una ricerca canonica, del Graal, di un tesoro nascosto, di un elisir. Il genere gli richiede poi di fare un incontro con una figura di straordinario potere che gli offre una qualche forma di aiuto soprannaturale per la sua ricerca: un cavallo instancabile, un filo d’oro interminabile, il dono delle lingue, il potere di previsione, e così via. Per funzionare gli elementi che attuano le funzioni devono creare e conservare la coerenza narrativa dell’insieme. Il protagonista principale deve agire appropriatamente con azioni che lo portino in direzione dei propri fini, deve tener fede agli impegni, persistere per riuscire, allearsi in modo appropriato ed usare convenientemente le sue risorse.

I racconti fantastici di Propp sono antichi e consumati dall’uso. Nuovi generi emergono, meno consumati e meno determinati strutturalmente. La “svolta interiore” del romanzo32nell’ultimo secolo ha anche prodotto nuovi generi, come nei romanzi di Joyce, Proust e Musil. I cambiamenti nelle convenzioni narrative che ne risultano possono anche trasformare la nostra nozione di sé possibili, come suggerisce il testo magistrale di Charles Taylor, Le radici del Sé. Ciò che appare chiaro è che le nostre concezioni dell’identità, come pure i nostri modi di strutturare la nostra esperienza privata del Sé si modificano in conformità ai mutamenti delle convenzioni narrative. Il motto romantico: la vita imita l’arte certamente oggi suona meno sconcertante di quanto apparisse allora.

VIII

Infine vorrei dedicarmi a una questione curiosa che emerge da quanto detto finora. Se i Sé sono modellati sulle strutture narrative imposte alla vita, come fanno queste strutture narrative a penetrare nella vita? Come i racconti di una cultura si guadagnano la loro via all’interno del Sé? Poche persone, certo, scrivono o pensano alle loro vite nei termini di un racconto compiuto e pienamente organizzato. Molte vite vengono raccontate irregolarmente, a pezzi per scusarsi di qualcosa, per giustificare certe credenze e desideri. Amiamo affermare che quei pezzi locali di vita derivano da una qualche implicita vita narrativa che abbiamo “in memoria” o “nell’immaginazione”, o in qualche altro posto. Ma devo ammettere che come persona che ha letto, ascoltato molti racconti autobiografici e ne ha anche scritto uno, dubito che ci siano racconti impliciti immagazzinati. Le autobiografie raccontate sono molto più tipicamente costruite funzionalmente per l’occasione . La maggior parte delle vite raccontate si caratterizzano piuttosto per le loro incertezze, i punti di svolta, gli zig-zag, episodi ed eventi isolati, dettagli non ben integrati. Le autobiografie ben elaborate sono rare. Quando le si incontrano, sembrano recitate.

Dunque quali schemi immagazzinati internamente guidano i nostri resoconti autobiografici? Penso che questa domanda oscuri la soluzione. Vorrei proporre piuttosto che la costruzione di sé è una ricerca prevalentemente metacognitiva, come una sorta di riconsiderazione di un territorio familiare per inserirlo in una carta topografica più generale. Creiamo le catene di montagne, le pianure, i continenti retrospettivamente attraverso i nostri sforzi riflessivi: imponiamo confini e metastrutture immaginative su dettagli locali per ottenere la coerenza dell’insieme. Ciò non significa che i dettagli locali non siano esperienze reali nella nostra memoria, ma essi devono essere collocati in un contesto più ampio. Ogni medico che ascolta un paziente, ogni prete che ascolta confessioni, ogni avvocati che lavoro con un cliente per una causa, tutti costoro conoscono questa verità stringente. Ciò che è interessante a proposito di queste professioni è che i loro praticanti sono forniti di modelli appropriati per aiutare i loro clienti, dando forma a un racconto globale tratto dai dettagli e dai frammenti delle loro vite per raggiungere un certo scopo. Il medico ha le sue teorie, il prete le sue dottrine su pentimento e redenzione, l’avvocato le sue procedure per stabilire colpevolezza e innocenza. In realtà però la maggior parte delle volte non abbiamo bisogno dell’aiuto di professionisti: la maggior parte delle volte ci aiutiamo l’un l’altro attraverso il processo del dialogo.

Perché metacognizioni e non schemi immagazzinati o scheletri narrativi? Raramente siamo chiamati a ricostruire su “larga scala” versioni di noi stessi e della nostra vita. Accade quando un medico vuol ricostruire la nostra anamnesi, quando facciamo richiesta di ammissione a un club o all’università, o riempiamo moduli per aderire a un’associazione e ci vengono chieste le ragioni per cui lo facciamo. Di solito usiamo ricostruzione autobiografiche quando forniamo scuse o ragioni. In questi resoconti ci atteniamo al punto per rispettare le massime di Grice33 su brevità, perspicuità, pertinenza e verità. La storia della vita e del sé nel corso del tempo non riguardano scuse per il ritardo o il morbillo avuto da piccoli. Di qualsiasi cosa si tratti, di solito non abbiamo bisogno di molto tempo per ricostruirle coerentemente e nel dettaglio. Sembriamo credere che quando ce ne sarà bisogno avremo i mezzi a portata di mano. Ci possono essere altre ragioni per questo.

Credo che ci sia qualcosa di culturalmente adattivo e psicologicamente comodo nel “mantenersi aperte le opzioni” quando si parla della propria vita. Perché fissare la storia della propria vita e con ciò la propria concezione del Sé, ci può chiudere delle possibilità prematuramente: una storia di vita creata in anticipo, per usare l’espressione di Amelie Rorty34, una figura chiusa, senza opzioni alternative. Nel nostro mondo sociale, più si fissa il nostro concetto del sé, più diventa difficile padroneggiare i mutamenti. “Mantenersi aperti” rende possibili i rimedi e le negoziazioni. Dunque non è sorprendente che i punti di svolta siano così caratteristici delle autobiografie che scriviamo o raccontiamo.

Perché siamo così sicuri di poter descrivere le nostre vite e i nostri Sé quando ce n’è bisogno, nonostante la nostra riluttanza a fissare la nostra posizione? Sospetto che l’illusione dell’autocostruibilità narrativa inerisca alla nostra fiducia nelle possibilità narrative presenti nel linguaggio naturale. Diciamo qualcosa di più in proposito.

Insieme ad alcuni colleghi ho avuto la fortuna di analizzare i soliloqui a letto di una bambina, Emmy, nel periodo tra i due e i tre anni, lunghi monologhi a luce spenta dopo che i genitori si erano allontanati35. Molti erano autobiografici. Si trattava di un anno in cui era nato il fratellino ed Emmy era entrata nel mondo rumoroso e frenetico dell’asilo. Nei suoi soliloqui ella riesamina la sua giornata, cercando di stabilire ciò che è attendibile e canonico, ciò che si avvicina a ciò che dovrebbe essere. Prova ad adottare diverse posizioni nei confronti delle persone e degli eventi raccontati, esprimendoli con locuzioni come “voglio che…” oppure “in realtà non so se…” . Ci divenne chiaro nel corso di questo lungo studio che l’atto di dar conto di sé, almeno in termini brevi, è acquisito insieme all’acquisizione del linguaggio.

Dunque una specie di “linguaggio naturale” per le autobiografie non artistiche sembra esserci accessibile dalla prima età nella forma di connettivi, segnali temporali e causali e così via. Ma l’impiego narrativo di queste forme linguistiche a portata di mano per creare una storia di sé coerente ed estesa richiede qualcosa di più che mere abilità linguistiche. Richiede abilità narrative e un insieme di racconti e componenti di racconti. Fornire scuse e ragioni per particolari azioni o giustificare i nostri desideri non ci fornisce di tale equipaggiamento. Queste frammenti autobiografici episodici non ci forniscono i mezzi per adattarci al più ampio contesto culturale o per prendere conoscenza delle opportunità culturali su cui si basa la nostra vita. Tutto ciò richiede una forma più ampia di apprendimento al quale, tranne in condizioni speciali, sembriamo riluttanti.

Che cosa allora spinge le persone a ricercare un modo di raccontarsi più comprensivo, più esteso nel tempo, meglio strutturato narrativamente? Perché continuiamo a costruire versioni del Sé più estese, anche se ammettiamo la cautela di cui parlavamo prima? Si possono fornire risposte semplicistiche a queste domande usando cliché bell’e fatti, come il bisogno presupposto delle persone di giustificare la loro vita quando si sentono sotto il fuoco delle critiche, come la difesa dei politici accusati così familiare ai nostri tempi; oppure il cliché che le persone, prese dalla colpa, hanno bisogno di espiare i peccati. Penso che si possa far di meglio che riprodurre questi cliché.

In realtà lo slancio maggiore verso un resoconto autobiografico più esteso possa essere suggerito proprio dalla natura dei racconti che scegliamo di utilizzare quando facciamo resoconti più comprensivi ed estesi. Molti studiosi di narrativa, in particolare Kenneth Burke36, Hayden White37, William Labov38 hanno notato che il vero meccanismo della narrativa è la difficoltà39, un ostacolo, un problema percepito oppure ciò che prima abbiamo definito un pericolo. Il racconto, come sappiamo, comincia con un’indicazione implicita o esplicita, di uno stato del mondo stabile, canonico e procede per dar conto di come esso sia stato distrutto, sulle conseguenze di questa distruzione e culmina con un resoconto degli sforzi per ripristinare l’originaria stabilità o per riparare la violazione iniziale. Esso è specializzato a trattare problemi creati dal distacco dalla legittimità, un metagenere per contenere il travaglio dovuto al pericolo.

Un problema, una difficoltà dunque può essere non solo il meccanismo della narrativa, ma anche l’impeto per estendere ed elaborare il nostro concetto del Sé. Pochi si meravigliano che esso sia il mezzo scelto per trattare non solo i Problemi, ma per costruire e ricostruire il Sé.

James Young riferisce che molti internati dei campi di concentramento nel periodo della Shoah erano ossessionati dalla registrazione autobiografica degli orrori che stavano vivendo e spesso rischiavano la vita per farlo in segreto40. Queste memorie sono scioccanti, ma poche vanno oltre la mera testimonianza, perché riuscire ad ottenere il distacco necessario per la metacognizione nella vita quotidiana di Auschwitz o Ravensbruck era virtualmente impossibile, perché era proprio il distacco ciò che i Lager erano designati a distruggere. Eppure alcuni riuscirono nell’impresa, tra i quali Primo Levi e pochi altri. Si prenda questo brano dal libro di Levi41, in cui egli cerca di capire che cosa sta sperimentando mentre tenta di riformulare il suo senso del Sé (Tragicamente non ci riuscì mai del tutto dato che si suicidò diversi anni dopo questo scritto.). Ma questo brano ci dice a proposito degli indicatori dell’identità più di qualsiasi prosa saggistica. Riguarda la vita dell’autore alla fabbrica chimmica vicina ad Auschwitz in cui era stato mandato a lavorare come chimico schiavo e precede il racconto del furto dei bastoncini di cerio dalla fabbrica, ritornando ogni notte a venderlo (come pietre focaie nel lager) alle guardie del campo in cambio di cibo e favori ad Auschwitz.

Ero chimico in uno stabilimento chimico, in un laboratorio chimico (anche questo è già stato raccontato) e rubavo per mangiare. Se non si comincia da bambini, imparare a rubare non è facile; mi erano occorsi diversi mesi per reprimere i comandamenti morali e per acquisire le tecniche necessarie, e ad un certo punto mi ero accorto (con un balenio di riso, e un pizzico di ambizione soddisfatta) di stare rivivendo, io dottorino per bene, l’involuzione-evoluzione di un famoso cane per bene, un cane vittoriano e darwiniano che viene deportato, e diventa ladro per vivere nel suo “Lager” del Klondike, il grande Buck del Richiamo della foresta . Rubavo come lui e come le volpi: ad ogni occasione favorevole, ma con astuzia sorniona e senza espormi. Rubavo tutto, salvo il pane dei miei compagni.

Forse ho scelto un esempio troppo estremo. Ovviamente non abbiamo bisogno di situazioni così estreme per avviare il processo di auto-ricostruzione. L’elevamento della coscienza, che spesso contiene ampi elementi di auto-ricostruzione spesso accompagna la marginalizzazione, l’esser posti al di fuori del flusso rassicurante della maggioranza. È quando il Sé non è più capace in modo da relazionarci agli altri, o alla nostra precedente concezione di noi stessi che ci volgiamo a una rinnovata ricostruzione. È quando il concetto di sé non ci dà più la richiesta individuazione, né la mutualità con gli altri esseri da cui dipendiamo che ci avviamo a cambiare il Sé.

Suggerendo che i problemi ci costringono a rimodellare il Sé non voglio dire che il problema sia qualcosa decretato dal fato o che semplicemente ci venga per cattiva fortuna, sebbene ci possano essere molti problemi di questo tipo. Alcuni esseri umani hanno una particolare sensibilità per vedere problemi laddove altri vedono solo il tessuto di cose ordinarie. Che questa sensibilità sia il prodotto dell’intelligenza, del temperamento o dell’immaginazione, sembra condurre quelli che ne sono dotati a un’identità più profonda o a una grande instabilità nel tener fermi i limiti dell’identità oppure a una poco confortevole mescolanza tra questi. La scrittrice Eudora Welty chiama questa sensibilità “audacia” ed ella termina le sue notevoli memorie con queste parole: “Una vita protetta può anche essere una vita audace, perché ogni vera audacia sorge dall’interno”42.

È affrontando problemi e difficoltà, reali o immaginati, che modelliamo un Sé che si estende oltre il qui e ora degli incontri immediati, un Sé più capace di contenere sia la cultura che dà forma a quegli incontri, sia le nostre memorie di come abbiamo fatto fronte ad essi in passato. L’anomalia in tutto ciò, e forse è il fardello della specie umana, è che estendere ed elaborare la nostra versione dell’identità, propria o altrui, è rendere il compito dell’autocostruzione più difficile. La metacognizione può essere la fonte della nostra creazione del Sé, ma non è un compito facile.

Forse Kierkegaard intuì che la difficoltà sta nel fatto che la vita è vissuta in avanti, verso il futuro, incontro per incontro, mentre il Sé è costruito retrospettivamente, metacognitivamente.

In conclusione dunque, il Sé è sia interno che esterno, pubblico e privato, innato e acquisito, prodotto dell’evoluzione e dei racconti. I concetti che abbiamo di noi stessi sono molto elastici, ma abbiamo imparato tragicamente ai nostri tempi che sono anche vulnerabili. Forse è questa combinazione di proprietà che rende il Sé un appropriato ma instabile strumento per la formazione, il mantenimento e l’assicurazione dell’adattabilità della cultura umana.

Riferimenti bibliografici

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11. N. Humphrey, Consciousness regained, Oxford University Press, Oxford 1983; P. Ricoeur, Sé come un altro (tr.it.) Jaca Book, Milano 1995.

12. Io non intendo prender posizione sulla “realtà” del Sé ponendo questa questione; questi problemi ontologici non devono interessarci ora. In un certo modo, le questioni poste qui sono simili al test di Turing: come possiamo dire se è un operatore umano o un computer a interagire con noi?

13. R. K. Merton, Social theory and social structure, Free Press, New York 1968.

14. E. Langer, Mindfulness, Addison Wesley, MA 1989.

15. I. Eibl-Eibesfeld, I fondamenti dell’etologia, (tr.it.) Adelphi, Milano 1995.

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30. Vladimir Propp, op.cit.

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36. Kenneth Burke, op. cit.

37. Hayden White, op. cit.

38. W. Labov & J. Waletzky, Narrative analysis, in J. Hel (ed.) Essays on verbal and visual arts, University of Washington Press, Seattle, 1967.

39. J. Bruner, La ricerca del significato, cit.

40. J. E. Young, Writing and rewriting Holocaust, Bloomington, Indiana University Press 1988.

41. Primo Levi, Il sistema periodico, Einaudi, Torino 1979, p. 167.

42. E. Welty, One’s writers beginning, Harvard University Press, Cambridge, 1983.

© L’articolo originale  è tratto da “Annals of The New York Academy of Science, vol. 818, 1997 (ed. J. Snodgrass – R. Thompson).

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